Brexit, una scommessa azzardata

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Il primo ministro britannico David Cameron ha perso la sua scommessa, ed ha rassegnato le dimissioni in seguito ai risultati del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Una situazione probabilmente sfuggita di mano agli stessi promotori della consultazione, fra cui il governo conservatore, che auspicava invece un “Remain” di misura per potersi presentare a Bruxelles con una maggiore forza negoziale, chiedendo ulteriori deroghe sullo status della Gran Bretagna nei confronti dell’UE. I fattori di rischio erano però numerosi, soprattutto a fronte di una campagna elettorale giocata dagli euroscettici su temi piuttosto emotivi, che si richiamavano ad una Gran Bretagna “indipendente”. Probabilmente, invece, la Gran Bretagna sarà da oggi più isolata sul piano internazionale.

Sul fronte interno si assiste all’eclisse della corrente conservatrice guidata da Cameron, mentre ne escono rafforzati i populisti di Nigel Farage, che assurgono da mero fenomeno di costume a forza politica che, nel bene e nel male, non potrà essere più ignorata. Non è inoltre trascurabile l’effetto trainante sui partiti e i movimenti di simili tendenze scettiche e qualunquiste, presenti non solo nei membri storici dell’UE come Francia, Italia, Belgio e Paesi Bassi, ma anche nei paesi di recente acquisizione come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca.

L’esito del referendum britannico pone con vigore il problema della governance dell’Unione, che si è voluto ignorare da troppo tempo e che negli ultimi anni ha fatto crescere in tutta Europa il malcontento sulla gestione del problemi legati all’economia, alla previdenza sociale, all’immigrazione e alla posizione dell’UE nell’attuale mondo multipolare.
Di fronte a queste sfide la Gran Bretagna ha preferito ritornare al passato, rifugiandosi entro vecchi paradigmi isolazionistici anziché tentando di trovare soluzioni comuni e condivise insieme agli stati del Continente.

Vi sono alcuni fattori fondamentali che hanno sancito la vittoria del “Leave”, inconfutabile ma non plebiscitaria (51,9% contro il 48,1% del “Remain”). Il primo è costituito dal divario fra città e campagna: nei centri urbani ha generalmente prevalso il sentimento europeo, mentre nei piccoli ma numerosi borghi minori, tradizionalmente più chiusi e conservatori, il verdetto è stato nettamente ostile all’UE. Il secondo fattore è stato territoriale: la roccaforte del “Leave” è stata la popolosa Inghilterra, mentre l’Irlanda del Nord e ancor più la Scozia si sono schierate per il “Remain”. Quest’ultima dovrà patire fortemente le conseguenze politiche di un maggiore isolamento, dipendendo sempre più dalle decisioni di Londra: probabilmente se il referendum sull’indipendenza scozzese si fosse svolto dopo quello sull’UE, il Regno Unito sarebbe stato condannato alla disgregazione, con una Scozia indipendente ed europea, confinante con un’Inghilterra di redivive logiche ottocentesche. Il terzo fattore riguarda infine il divario generazionale: secondo alcuni rilevamenti statistici, i giovani sono stati i più favorevoli al “Remain” (75% per la fascia d’età tra i 18 e i 24 anni). Anche fra gli adulti tra i 25 e i 49 anni si è registrata una discreta maggioranza pro Europa, mentre gli ultracinquantenni si sono espressi in larga parte per l’uscita dall’UE.

Quali saranno le ripercussioni a lungo termine? La Gran Bretagna dovrà presumibilmente far fronte ad una diminuzione del proprio peso internazionale e dovrà fare a meno dei benefici derivanti dall’armonizzazione con le politiche europee, preparandosi ad una maggiore esposizione all’instabilità dei mercati monetari e finanziari. Vi sarà da rinegoziare ogni aspetto attualmente disciplinato dal diritto comunitario: dall’uscita dal mercato unico al ripristino delle frontiere e dei dazi doganali. Di certo non ne beneficerà il turismo: è difficile immaginare l’eventualità di dover passare attraverso una frontiera per trascorrere un week-end (scusate, “fine settimana”) a Londra. Fra le prospettive possibili vi potrebbe essere l’entrata del Regno Unito nell’Associazione Europea di Libero scambio (EFTA), l’organizzazione che raggruppa paesi come Norvegia, Islanda e Svizzera che, pur non facendo parte dell’UE, implementano mediante accordi bilaterali o multilaterali alcuni aspetti presenti anche nel diritto comunitario, che riguardano ad esempio la libera circolazione delle merci. A fronte del risultato referendario però, questa ed altre ipotesi appaiono attualmente remote o poco realistiche. “Exit is exit”, come ribadito dalle istituzioni europee, che per l’occasione si sono espresse con un’insolita fermezza: indietro (per ora) non si torna.